novembre 22, 2008

La prima volta non si scorda. Mai!


Premessa: se l'articolo precedente era per gran parte incomprensibile ai più, vista la presenza non solo di riferimenti, ma anche allusioni a personaggi (seppur storici) che di tanto in tanto compaiono sui parquet NBA, questo lo sarà ancora di più.

(Porte le doverose scuse, passiamo al sodo).

3 novembre 2008 (sì, si va all'indietro),

Lunedì, per la precisione.

Esco, di furia, dal periodo 5 che come già più volte accennato risponde al nome di "Basketball". Di furia vado a casa: doccia, cambio di vestiti, e si parte. Ah no, manca una cosa, che si rivelerà molto, molto importante. La macchina fotografica. Ora, si parte.

2 ore di Interstate 20, strada (si fa per dire) di cui veramente non si vede né l'inizio (North Carolina!) né la fine (West Texas). Quando finalmente scorgi i primi grattaceli, capisci di essere arrivato, se downtown Dallas è la tua destinazione.

Intanto nelle due ore passate in viaggio, chiama il figlio dell'agente di sorveglianza per le persone in stato di libertà vigilata a Longview. Che in altre parole sarebbe Mr. Wesley, la cui progenie risponde al nome di David. David (Wesley ndr.) ex Cleveland (e molto altro, ma questo sarà trattato in futuro), quella delle Finals di due anni fa, dice di andare all'hotel dove alloggiano i Cavaliers perché lì ci sarà un amico che ci procurerà i biglietti per la partita della notte. Cleveland at Dallas.

L'hotel, roba da almeno 3 zeri a notte, è a duecento metri dall'American Airlines Center. Così giro panoramico intorno alla tenuta di Mark Cuban, e via all'hotel, che si trova in mezzo tra un palazzo di 20 piani con uffici vari e negozi di diversi prodotti ma con denominatore comune: il numero di cifre sull'etichetta, improponibile. Apparte il giro panoramico nei dintorni, ci dirigiamo (io e il Sg. Filippazzo) verso la hall dell'hotel, dove ci aspetta Amanda. Amanda è il direttore del settore marketing dei Cavaliers, e ci procura due biglietti che per un novellino come me sono oro colato. Biglietti da 90 verdoni l'uno nella sezione dove siede la stampa, che si trovano nell'anello più basso a si e no una decina di metri dal campo. Un sogno.

Così fatte i più che doverosi convenevoli di sincera riconoscenza, ci avviamo al palazzo, che quella sera, si prevede ovviamente essere riempito alla massima capacità di 19000 spettatori. Tra gli altri motivi, ce n'è uno che ha anche un nome. LeBron.

Arriviamo presto, anzi prestissimo, con la chiara idea di prenderci due momentanei posti a bordo campo, così tanto per ottenere un paio autografi ricordo dai giocatori che passano. La speranza è che passi l'eletto, ma in quanto speranza non è detto che si avveri. E infatti rimarrà tale. In compenso otteniamo due, tre autografi tra cui il rookie J.J. Hickson (da tenere a mente), Boobie Gibson e Andy Varejao, che mi riserverà anche l'onore della foto che vedete là in alto.

Oltre a tutto ciò, come dicevamo c'era anche una partita da giocare. Diciamo la verità, non la più entusiasmante di tutti i tempi, anche perché è giusto inizio novembre e LeBron non è in vena di esaltare. Finirà con 29, in scioltezza. I Mavs perdono in casa la partita che darà inizio alla serie negativa (intervallata per la verità dalla vittoria di San Antonio, che tuttavia di questi tempi non fa testo) di 6 sconfitte consecutive. Tifosi Mavs indiavolati, di Mark Cuban non ne parliamo nemmeno. 

Finita la partita però si torna di corsa a casa, e con ciò alla dura realtà. 

Come prima volta assolutamente non male, se non altro più il contorno che la partita in sé, che tuttavia con Dirk e LeBron sul parquet (tanto per dirne due eh) rimane a priori più che rispettabile.

Intanto ora si aspettano con impazienza i Knicks (che al Sg. Filippazzo stanno particolarmente a cuore), nella speranza di vedere un Gallo ruspante, anche se probbilmente anche quella è e rimarrà una speranza.

Jacopo.

P.S.: Due note. La prima: se qualcuno ha ancora in mente J.J. Hickson, ecco, il cugino del rookie e lui stesso, entrambi originari della Georgia (o qualche stato "per in là")siede una fila sotto di noi e ci  fa notare con vistosa impazienza la cosa, anche se il povero familiare non metterà piede in campo. Tralasciabile. 

La seconda: da annettere al capitolo "emozioni" c'è l'episodio volutamente tralasciato che va in scena all'hotel. Due istanti dopo aver ricevuto i nostri biglietti, ce ne usciamo tranquilli e decidiamo che è ora di rilassarsi un momento al tavolo di Starbucks. Non c'è modo. Due minuti dopo arriva il bus dell'NBA, così giocatori, staff, direttori marketing ecc. salendo sul bus, ti sfilano tutti a un paio di metri. L'ultimo, in vestito completamente nero con due cuffie old-stile sugli orecchi, è LeBron, che oltre a portare la borsa porta anche un brivido. Eh insomma, non c'è proprio modo di rilassarsi eh.

novembre 08, 2008

I Mavericks e il Maverick, due storie diverse.

4 novembre 2008

"Hey Jacopo".

Sono ormai le 10 passate, e non tanto la scuola, quanto la quotidiana doppia seduta di allenamento, si fa sentire. Siamo più o meno all'ora di addormentarsi insomma.

Quel nome, pronunciato per l'ennesima volta con quell'ormai familiare accento americano, ha qualcosa di più strano stasera.

"Come here, look at this".

Avevo lasciato gli Spurs a 4 minuti dalla fine del 4° quarto sotto di sedici contro i Mavs, che quella sera sembravano essere stati benedetti dal più importante degli dei del basket. Dirk tuttavia non era in serata strabiliante, 30 in 37 minuti. Ci avevo quasi creduto, non so con quale logico sostegno, ma devo ammettere che ci avevo quasi creduto. Forse Gregg, anche se nel nuovo stile meno ammiraglio e più uomo vissuto (vedi barba incolta ormai da parecchie settimane) offriva sostegno a tale tesi, che tuttavia rimaneva pur sempre terrena e quindi irrealizzabile, vista la presenza divina che quella sera era scesa all'AT&T Center.

Così mi dirigo molto controvoglia verso la tv, da cui sento arrivare un frastuono di gente che urla. Come se gli Spurs avessero miracolosamente rimontato. Si, questa volta sono quasi del tutto convinto. Sullo schermo brilla un numero bianco su sfondo blu, che più o meno occupa tutta l'immagine: 284. Sinceramente troppi, anche se ci fossero stati i vecchi Suns, figuriamoci per la squadra di Popovic. 

"Look, this is Chicago, he's gonna talk in a minute!"

Su un palco circondato da migliaia di persone appare l'eletto. Downtown Chicago fa da sfondo al nuovo presidente degli Stati Uniti. 284 sono i "seggi" (la traduzione da "electoral votes" mi sfugge) che Barack Obama, ore 10:20 sul fuso della Windy City, ha appena conquistato. 270 ne servivano per la vittoria. Da lì in avanti, seppur restando con il voto popolare in bilico, sarà un massacro: 365 a 162. Ma ormai nessuno se ne curava nemmeno più. Il primo uomo afro-americano era stato eletto da pochi minuti Presidente degli Stati Uniti. Roba da non credere. No infatti, nessuno ci credeva. Chi aveva votato l'uomo da Chicago era abbastanza sicuro che l'America non fosse pronta per tutto ciò, mentre i sostenitori del Maverick (guarda te, le coincidenze) increduli sbattevano il telecomando contro il televisore, convinti che questa, più di molte altre cose, porterà più danni che benefici. C'è chi poi invece si rassegna dicendo che (testuali parole) se il nostro presidente è nero, non ci possiamo far niente, dobbiamo solo accettare la dura realtà. Che detta così fa spavento, ma anche se l'inglese ancora qualche volta zoppica, il senso di tali parole l'ho ampiamente compreso. E non credo servano spiegazioni.

Apparte ciò, credo che questo episodio in qualche libriccino/almanacco in un modo o nell'altro è destinato a finirci. Ed essere lì, con qualcuno che in fondo ci sperava, ma che in cuor suo non voleva mettere troppo le mani avanti, è una di quelle cose che ti riconciliano. Con il mondo, con l'America. Se poi la mattina seguente, la professoressa di diritto, marito e figlio nell'esercito, texana fino all'osso e apparentemente repubblicana convinta, dice che in 8 anni l'amico del maverick ha fatto "più danni della grandine" e per questo i compari non meritano altri 4 anni nel D.C., allora ti riconcili anche con tutti gli altri. Tutti gli altri poveri (scusate l'invettiva) stolti che credono che il colore valga più di tutto il resto. E allora che blu (colore dei democratici ndr) sia, e che sia sempre più scuro, tendente al nero, se qualcuno fosse propenso a creare un'analogia. A tutti gli altri poveri stolti che hanno la storia sotto gli occhi, e non se ne vogliono rendere conto. Un grazie invece a tutta l'America repubblicana o democratica che sia, che si accorge che forse a partire dal 4 novembre 2008 qualcosa è cambiato, e aldilà dell'ideologia politica, quel qualcosa si è evoluto, è migliorato. Grazie, per avermi fatto toccare con mano La storia.

Menzione speciale se la merita chi poi, stando a destra dell'oceano riserva (e come non aspettarcelo) amenità varie sul nuovo eletto, "prendendosi la briga e di certo il gusto" di far passare da idioti una sessantina di milioni di persone. Vabbè, nel grande ci sta il piccino, anche lui con il suo pensiero qualcuno pur rappresenterà…Forse. Come la pensa chi scrive più o meno si sa.

Jacopo.

novembre 01, 2008

(Ap)Plauso alla scuola americana

Denigrare la scuola americana è quello che, più o meno tutti, senza averla mai vista, facciamo. Dire che in fondo in fondo ha anche i suoi lati positivi, è quello che, più o meno tutti quelli che l'hanno vista, fanno. A volte tenere insieme 2500 persone di colore, razza, idee, pensieri diversi è impossibile. E' per questo che a scuola ci devono tenere la polizia.

Ma, quando si riesce a vedere che quei colori, quelle idee, quei pensieri combaciano, viene da pensare che non sia l'omino vestito di blu con la pistola alla cintura ad aver fatto un buon lavoro, ma gli altri 2500 che gli stanno intorno. Poi ognuno la pensa a modo suo.

Qua, almeno la scuola, non guarda di che colore sei, se voti Obama o McCain, se sei un metro e mezzo o se sei due e dieci. Qua la scuola, è un posto dove, primo si impara a stare al mondo, secondo si impara il "superfluo": storia, geografia… Perché "là fuori" la gente che nonostante sia stata a scuola è restia a comprendere l'antifona non è poca, e continua imperterrita a distruggere ciò che altri costruiscono. Perché se ci pensiamo bene è vero, gli americani soprattutto dentro i confini cercano dare a se stessi e agli altri "pace e libertà". Sì anche fuori, ma quello è un altro discorso.

Insomma scuola pubblica? Non da buttare, anzi. Longview High School, scuola frequentata ma nemmeno poi tanto, offre 100 e passa corsi, partendo dalla cucina (!), passando dalla più classica matematica, per finire a corsi di dubbio apprendimento quali "floral design" o "bible survey", ma non mettiamo le mani su quest'ultimo, che poi qualcuno la prende su personale! Ma quello che stupisce non è la presenza di tali, bensì la notevole frequentazione. Il corso di cucina poi è richiesto più dell'acqua nel Sahara. Testimoni dicono che ti devi iscrivere un anno prima per poter frequentare quel corso. Invece la classe di fisica consta di ben 17 alunni e il livello non è che sia stellare. Allora provo a immaginare il frequentatore medio della classe di cucina . No, non ce la faccio (e sia detto con tutto il dovuto rispetto eh). Ma, apparte il livello, va considerato che la scuola pubblica, non riceve un autentico accidente se non per le funzioni vitali. E nonostante ciò, ci sono club come il golf, il tennis, il club di spagnolo, quello di francese. Come? Donazioni.

Esempio: la squadra di basket, ogni anno, va in trasferta con pullman, e sosta in albergo per le trasferte più lunghe, con in soli soldi delle donazioni. Sì perché come detto in precedenza, lo stato (in questo caso Texas, che è anche molto generoso!) paga la scuola pubblica. Ma come tutti ben sappiamo, sul lato sinistro dell'oceano preferiscono spesso affidarsi al genio dei singoli popolanti, piuttosto che a strutture di più "obamiana" (concedetemelo, vi prego) accessibilità.

E così, poveri noi, ci ritroviamo in una scuola che puzza, cade a pezzi, non ti insegnano niente e hai poliziotti che ti girano intorno a tutte le ore. Se si vuole la si può anche vedere così. Da un punto di vista "reale" invece, la scuola pubblica è una di quelle cose che insegna. Ti insegna a vedere il mondo, perché là dentro ci trovi i peggiori bifolchi, ma difficilmente ci trovi i Bill Gates o gli Steve Jobs, ti insegna che la scuola, oltre ad insegnarti la moltiplicazione, ti deve dare un modello, per quando sarai "là fuori". Lo sport, almeno per quanto mi riguarda, mi ha dato più lezioni di vita di quanto non avrebbe fatto Aristotele. Ma di questo in fondo ne abbiam già parlato a sufficienza. Quello che conta è che si cerca di fare il massimo con i mezzi che ci vengono dati, di rendere meno brutto quello che è brutto, e l'importante molte volte non è il risultato. Ma lo spirito. Il fatto che una volta di più si sia dimostrato lo sforzo di migliorare, non quello di essere perfetti. La consapevolezza che essere quanto di peggio esista, non sia un handicap ma un punto da cui partire, un vantaggio da sfruttare. Contro chi? Contro se stessi, contro i propri limiti. Sembra di capire come mai a quattro ore da Longview, TX, una quarantina di anni fa qualcuno partiva per andare a vedere i crateri lunari (o almeno così dicono, ma anche qui, quella sarebbe un'altra storia).

Fa veramente tristezza allora, vedere come da qualche parte nel mondo, invece di ottimizzare, si cerchi di manomettere qualcosa che, grazie a Dio, sembra funzionare. E non se fa una questione di politica, bilanci o finanziarie. Se ne fa una questione di orgoglio, lezione che in quella stessa parte di mondo sembrano (sembriamo?) non aver mai appreso. Se ne fa una questione di spirito, che ci dovrebbe spingere ad oltrepassare il vecchio per dirigersi al nuovo, senza vergogna di commettere errori. In Italia invece la lezione che si dà, è che sempre è meglio un passo indietro che uno avanti, meglio una sicurezza (effimera) che un imbarazzo per aver almeno tentato di far qualcosa.

Due culture diverse? Due modi di pensare diversi? Per me semplicemente due principi di newtoniana natura: uguali e contrari. Solo che uno tira avanti, e l'altro tira indietro. Qual è quello sbagliato? Fate voi, ma a me piace la direzione del tempo. Avanti senza mai fermarsi.

Jacopo

P.S.: un rappresentante italiano in terra Texana, dà il benvenuto in questo mondo imperfetto ad un suo omonimo, certo che anche lui, nell'indubbia imperfezione umana, seguirà la direzione perfetta del tempo. Buona Fortuna Jacopo (e confida nello zio).