Premessa: se l'articolo precedente era per gran parte incomprensibile ai più, vista la presenza non solo di riferimenti, ma anche allusioni a personaggi (seppur storici) che di tanto in tanto compaiono sui parquet NBA, questo lo sarà ancora di più.
(Porte le doverose scuse, passiamo al sodo).
3 novembre 2008 (sì, si va all'indietro),
Lunedì, per la precisione.
Esco, di furia, dal periodo 5 che come già più volte accennato risponde al nome di "Basketball". Di furia vado a casa: doccia, cambio di vestiti, e si parte. Ah no, manca una cosa, che si rivelerà molto, molto importante. La macchina fotografica. Ora, si parte.
2 ore di Interstate 20, strada (si fa per dire) di cui veramente non si vede né l'inizio (North Carolina!) né la fine (West Texas). Quando finalmente scorgi i primi grattaceli, capisci di essere arrivato, se downtown Dallas è la tua destinazione.
Intanto nelle due ore passate in viaggio, chiama il figlio dell'agente di sorveglianza per le persone in stato di libertà vigilata a Longview. Che in altre parole sarebbe Mr. Wesley, la cui progenie risponde al nome di David. David (Wesley ndr.) ex Cleveland (e molto altro, ma questo sarà trattato in futuro), quella delle Finals di due anni fa, dice di andare all'hotel dove alloggiano i Cavaliers perché lì ci sarà un amico che ci procurerà i biglietti per la partita della notte. Cleveland at Dallas.
L'hotel, roba da almeno 3 zeri a notte, è a duecento metri dall'American Airlines Center. Così giro panoramico intorno alla tenuta di Mark Cuban, e via all'hotel, che si trova in mezzo tra un palazzo di 20 piani con uffici vari e negozi di diversi prodotti ma con denominatore comune: il numero di cifre sull'etichetta, improponibile. Apparte il giro panoramico nei dintorni, ci dirigiamo (io e il Sg. Filippazzo) verso la hall dell'hotel, dove ci aspetta Amanda. Amanda è il direttore del settore marketing dei Cavaliers, e ci procura due biglietti che per un novellino come me sono oro colato. Biglietti da 90 verdoni l'uno nella sezione dove siede la stampa, che si trovano nell'anello più basso a si e no una decina di metri dal campo. Un sogno.
Così fatte i più che doverosi convenevoli di sincera riconoscenza, ci avviamo al palazzo, che quella sera, si prevede ovviamente essere riempito alla massima capacità di 19000 spettatori. Tra gli altri motivi, ce n'è uno che ha anche un nome. LeBron.
Arriviamo presto, anzi prestissimo, con la chiara idea di prenderci due momentanei posti a bordo campo, così tanto per ottenere un paio autografi ricordo dai giocatori che passano. La speranza è che passi l'eletto, ma in quanto speranza non è detto che si avveri. E infatti rimarrà tale. In compenso otteniamo due, tre autografi tra cui il rookie J.J. Hickson (da tenere a mente), Boobie Gibson e Andy Varejao, che mi riserverà anche l'onore della foto che vedete là in alto.
Oltre a tutto ciò, come dicevamo c'era anche una partita da giocare. Diciamo la verità, non la più entusiasmante di tutti i tempi, anche perché è giusto inizio novembre e LeBron non è in vena di esaltare. Finirà con 29, in scioltezza. I Mavs perdono in casa la partita che darà inizio alla serie negativa (intervallata per la verità dalla vittoria di San Antonio, che tuttavia di questi tempi non fa testo) di 6 sconfitte consecutive. Tifosi Mavs indiavolati, di Mark Cuban non ne parliamo nemmeno.
Finita la partita però si torna di corsa a casa, e con ciò alla dura realtà.
Come prima volta assolutamente non male, se non altro più il contorno che la partita in sé, che tuttavia con Dirk e LeBron sul parquet (tanto per dirne due eh) rimane a priori più che rispettabile.
Intanto ora si aspettano con impazienza i Knicks (che al Sg. Filippazzo stanno particolarmente a cuore), nella speranza di vedere un Gallo ruspante, anche se probbilmente anche quella è e rimarrà una speranza.
La seconda: da annettere al capitolo "emozioni" c'è l'episodio volutamente tralasciato che va in scena all'hotel. Due istanti dopo aver ricevuto i nostri biglietti, ce ne usciamo tranquilli e decidiamo che è ora di rilassarsi un momento al tavolo di Starbucks. Non c'è modo. Due minuti dopo arriva il bus dell'NBA, così giocatori, staff, direttori marketing ecc. salendo sul bus, ti sfilano tutti a un paio di metri. L'ultimo, in vestito completamente nero con due cuffie old-stile sugli orecchi, è LeBron, che oltre a portare la borsa porta anche un brivido. Eh insomma, non c'è proprio modo di rilassarsi eh.
1 commento:
Ovvia, finalmente una partita NBA..
Non eri andato in America (anche) per questo?? ASD
Si ruzza via, lo sappiamo tutti che ti trovi lì per imparare la lingua (ci vorrebbe un altro "ASD", ma tralasciamo...ASD) e per prenderti una bella vacanza dall'Istituto Lorenzini!! =D
Ciao ciao
Eu&Tommy
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