dicembre 25, 2008

Christmas...

Ah, un augurio di buon Natale a chiunque passasse di qui oggi.
Grazie a tutti.

Jacopo.

Dov’eravam rimasti?

Si riprende il filo del discorso dopo un lungo, lunghissimo silenzio. Il 22 novembre sembra un secolo fa, anche se in realtà il tempo sembra passare al ritmo dei cambiamenti meteorologici texani, dove si va dai 25 gradi alle tempeste di ghiaccio. Nello stesso giorno. I più anziani dicono che il surriscaldamento del globo e il distaccamento delle calotte polari non c'entrano, questo accadeva anche quando non c'erano ancora le automobili. Ci si fida dei vecchi veterani dal forte accento del sud.

E come, secondo alcuni teoremi matematici, tra i 25 gradi e la tempesta di ghiaccio qualcosina in mezzo ci deve pur stare, così dal 22 novembre a oggi (vigilia di Natale) qualcosina nel mezzo, per transività, ci dev'essere. E tra gli imprevedibili e frustranti tempi meteorologici da includere senza dubbio la notte gelida del 14 dicembre. Texas Stadium, i Giants (team di football di NY ndr.) visitano i padroni di casa Cowboys (team di Dallas, e come poteva non essere). Si entra al Texas Stadium, impianto che verrà demolito per far spazio al nuovo e modernissimo stadio prossimo probabilmente ai 100000 posti, con una certa calura. Tanto per intendersi, come già accennato è il 14 dicembre ma siamo in jeans e maglietta a maniche corte alle 6, ora locale del pomeriggio. Si esce dallo stadio alle ore 10 e 30, ora locale della sera, con un venticello che tira sui 25-30 miglia ogni ora e il termometro che è sceso ai quasi a 32 gradi. Fahrenheit (32 F=0° C, ndr.). E si indossa, da ingenui turisti in terra straniera, gli stessi jeans e t-shirt con cui eravamo entrati 4 ore prima. Ah no a dire la verità, il fedele compagno di avventura, ha anche la maglia di Eli Manning (quarterback dei Giants, ndr.) che tuttavia, a giudicare dalla sua espressione non sembra coprire più di tanto. Il quarto d'ora di cammino successivo, tanto ci vuole per raggiungere l'auto parcheggiata nemmeno troppo lontano dallo stadio, è un'odissea, tra il gelo e le osservazioni poco carine della gente di Dallas in riguardo alla maglia del quarterback newyorkese, che tuttavia non aiutano a scaldare né animi, né ambiente. L'arrivo all'autovettura è così accompagnato da note di chiaro sollievo contornate da imprecazioni di vario genere (italiano per me, inglese per il fido compare). Apparte ciò, serata memorabile.

Tornando al presente, oggi, Dicembre 24, giornata strana. 25 gradi, a guardar fuori sembra il 25 aprile. Strano il tempo qua, e strano è il modo in cui sembra passare. Stagioni indefinite, tempeste inaspettate, uragani, giornate primaverili il 24 dicembre. Tutto questo è sinceramente inusuale e contribuisce a creare una certa confusione con la percezione del tempo che passa, più che mai sballata. 134 giorni sembravano un'eternità ieri, sembrano un volo oggi. E in questo strano fluire temporale cerco metodicamente di trovare una risposta al come e al perché, illudendomi che lo scriteriato meteo texano, possa appagare i miei vuoti conoscitivi. In realtà l'illusione dura poco, e in un attimo capisco che di aver commesso un errore soltanto pensando a cercare di capire come il tempo si comporta. Soprattutto in Texas. Abbandono, molto saggiamente, tornando a pensieri molto più terreni come il fatto che questo Natale sarà in ogni modo diverso.

88863 km da casa (grazie google) non sono pochi, anzi a pensarci son proprio tanti. Ma dopotutto quei 4-5 chili che potevo prendere in Italia tra Natale e Capodanno, son qualcosa che le distanze non impediranno di accumulare. Se proprio dobbiamo dire la verità muovendosi verso la sinistra dell'oceano quelle 4-5 misure, raddoppiano, forse triplicano, nella durata del programma AFS (Another Fat Student, il redattore suggerisce).

L'ora si fa tarda, mi scuso per la divagazione noiosa e contorta che tuttavia ha caratterizzato la mia permanenza quaggiù nell'ultimo mese. Niente più lasciarsi andare a certi desideri oltremodo pretenziosi di descrivere sentimenti ed emozioni (quel compito lasciamolo ai "blogghi di emmessenne", ma quella è un'altra storia, e senza polemica eh!). Niente più ambizioni nel cercare di captare i modi e le ragioni del meteo texano, compito probabilmente più difficile che trovare una spiegazione filosofica allo scorrere del tempo. Non sono pronto a tutto ciò. No, ancora no.


 

Jacopo.

novembre 22, 2008

La prima volta non si scorda. Mai!


Premessa: se l'articolo precedente era per gran parte incomprensibile ai più, vista la presenza non solo di riferimenti, ma anche allusioni a personaggi (seppur storici) che di tanto in tanto compaiono sui parquet NBA, questo lo sarà ancora di più.

(Porte le doverose scuse, passiamo al sodo).

3 novembre 2008 (sì, si va all'indietro),

Lunedì, per la precisione.

Esco, di furia, dal periodo 5 che come già più volte accennato risponde al nome di "Basketball". Di furia vado a casa: doccia, cambio di vestiti, e si parte. Ah no, manca una cosa, che si rivelerà molto, molto importante. La macchina fotografica. Ora, si parte.

2 ore di Interstate 20, strada (si fa per dire) di cui veramente non si vede né l'inizio (North Carolina!) né la fine (West Texas). Quando finalmente scorgi i primi grattaceli, capisci di essere arrivato, se downtown Dallas è la tua destinazione.

Intanto nelle due ore passate in viaggio, chiama il figlio dell'agente di sorveglianza per le persone in stato di libertà vigilata a Longview. Che in altre parole sarebbe Mr. Wesley, la cui progenie risponde al nome di David. David (Wesley ndr.) ex Cleveland (e molto altro, ma questo sarà trattato in futuro), quella delle Finals di due anni fa, dice di andare all'hotel dove alloggiano i Cavaliers perché lì ci sarà un amico che ci procurerà i biglietti per la partita della notte. Cleveland at Dallas.

L'hotel, roba da almeno 3 zeri a notte, è a duecento metri dall'American Airlines Center. Così giro panoramico intorno alla tenuta di Mark Cuban, e via all'hotel, che si trova in mezzo tra un palazzo di 20 piani con uffici vari e negozi di diversi prodotti ma con denominatore comune: il numero di cifre sull'etichetta, improponibile. Apparte il giro panoramico nei dintorni, ci dirigiamo (io e il Sg. Filippazzo) verso la hall dell'hotel, dove ci aspetta Amanda. Amanda è il direttore del settore marketing dei Cavaliers, e ci procura due biglietti che per un novellino come me sono oro colato. Biglietti da 90 verdoni l'uno nella sezione dove siede la stampa, che si trovano nell'anello più basso a si e no una decina di metri dal campo. Un sogno.

Così fatte i più che doverosi convenevoli di sincera riconoscenza, ci avviamo al palazzo, che quella sera, si prevede ovviamente essere riempito alla massima capacità di 19000 spettatori. Tra gli altri motivi, ce n'è uno che ha anche un nome. LeBron.

Arriviamo presto, anzi prestissimo, con la chiara idea di prenderci due momentanei posti a bordo campo, così tanto per ottenere un paio autografi ricordo dai giocatori che passano. La speranza è che passi l'eletto, ma in quanto speranza non è detto che si avveri. E infatti rimarrà tale. In compenso otteniamo due, tre autografi tra cui il rookie J.J. Hickson (da tenere a mente), Boobie Gibson e Andy Varejao, che mi riserverà anche l'onore della foto che vedete là in alto.

Oltre a tutto ciò, come dicevamo c'era anche una partita da giocare. Diciamo la verità, non la più entusiasmante di tutti i tempi, anche perché è giusto inizio novembre e LeBron non è in vena di esaltare. Finirà con 29, in scioltezza. I Mavs perdono in casa la partita che darà inizio alla serie negativa (intervallata per la verità dalla vittoria di San Antonio, che tuttavia di questi tempi non fa testo) di 6 sconfitte consecutive. Tifosi Mavs indiavolati, di Mark Cuban non ne parliamo nemmeno. 

Finita la partita però si torna di corsa a casa, e con ciò alla dura realtà. 

Come prima volta assolutamente non male, se non altro più il contorno che la partita in sé, che tuttavia con Dirk e LeBron sul parquet (tanto per dirne due eh) rimane a priori più che rispettabile.

Intanto ora si aspettano con impazienza i Knicks (che al Sg. Filippazzo stanno particolarmente a cuore), nella speranza di vedere un Gallo ruspante, anche se probbilmente anche quella è e rimarrà una speranza.

Jacopo.

P.S.: Due note. La prima: se qualcuno ha ancora in mente J.J. Hickson, ecco, il cugino del rookie e lui stesso, entrambi originari della Georgia (o qualche stato "per in là")siede una fila sotto di noi e ci  fa notare con vistosa impazienza la cosa, anche se il povero familiare non metterà piede in campo. Tralasciabile. 

La seconda: da annettere al capitolo "emozioni" c'è l'episodio volutamente tralasciato che va in scena all'hotel. Due istanti dopo aver ricevuto i nostri biglietti, ce ne usciamo tranquilli e decidiamo che è ora di rilassarsi un momento al tavolo di Starbucks. Non c'è modo. Due minuti dopo arriva il bus dell'NBA, così giocatori, staff, direttori marketing ecc. salendo sul bus, ti sfilano tutti a un paio di metri. L'ultimo, in vestito completamente nero con due cuffie old-stile sugli orecchi, è LeBron, che oltre a portare la borsa porta anche un brivido. Eh insomma, non c'è proprio modo di rilassarsi eh.

novembre 08, 2008

I Mavericks e il Maverick, due storie diverse.

4 novembre 2008

"Hey Jacopo".

Sono ormai le 10 passate, e non tanto la scuola, quanto la quotidiana doppia seduta di allenamento, si fa sentire. Siamo più o meno all'ora di addormentarsi insomma.

Quel nome, pronunciato per l'ennesima volta con quell'ormai familiare accento americano, ha qualcosa di più strano stasera.

"Come here, look at this".

Avevo lasciato gli Spurs a 4 minuti dalla fine del 4° quarto sotto di sedici contro i Mavs, che quella sera sembravano essere stati benedetti dal più importante degli dei del basket. Dirk tuttavia non era in serata strabiliante, 30 in 37 minuti. Ci avevo quasi creduto, non so con quale logico sostegno, ma devo ammettere che ci avevo quasi creduto. Forse Gregg, anche se nel nuovo stile meno ammiraglio e più uomo vissuto (vedi barba incolta ormai da parecchie settimane) offriva sostegno a tale tesi, che tuttavia rimaneva pur sempre terrena e quindi irrealizzabile, vista la presenza divina che quella sera era scesa all'AT&T Center.

Così mi dirigo molto controvoglia verso la tv, da cui sento arrivare un frastuono di gente che urla. Come se gli Spurs avessero miracolosamente rimontato. Si, questa volta sono quasi del tutto convinto. Sullo schermo brilla un numero bianco su sfondo blu, che più o meno occupa tutta l'immagine: 284. Sinceramente troppi, anche se ci fossero stati i vecchi Suns, figuriamoci per la squadra di Popovic. 

"Look, this is Chicago, he's gonna talk in a minute!"

Su un palco circondato da migliaia di persone appare l'eletto. Downtown Chicago fa da sfondo al nuovo presidente degli Stati Uniti. 284 sono i "seggi" (la traduzione da "electoral votes" mi sfugge) che Barack Obama, ore 10:20 sul fuso della Windy City, ha appena conquistato. 270 ne servivano per la vittoria. Da lì in avanti, seppur restando con il voto popolare in bilico, sarà un massacro: 365 a 162. Ma ormai nessuno se ne curava nemmeno più. Il primo uomo afro-americano era stato eletto da pochi minuti Presidente degli Stati Uniti. Roba da non credere. No infatti, nessuno ci credeva. Chi aveva votato l'uomo da Chicago era abbastanza sicuro che l'America non fosse pronta per tutto ciò, mentre i sostenitori del Maverick (guarda te, le coincidenze) increduli sbattevano il telecomando contro il televisore, convinti che questa, più di molte altre cose, porterà più danni che benefici. C'è chi poi invece si rassegna dicendo che (testuali parole) se il nostro presidente è nero, non ci possiamo far niente, dobbiamo solo accettare la dura realtà. Che detta così fa spavento, ma anche se l'inglese ancora qualche volta zoppica, il senso di tali parole l'ho ampiamente compreso. E non credo servano spiegazioni.

Apparte ciò, credo che questo episodio in qualche libriccino/almanacco in un modo o nell'altro è destinato a finirci. Ed essere lì, con qualcuno che in fondo ci sperava, ma che in cuor suo non voleva mettere troppo le mani avanti, è una di quelle cose che ti riconciliano. Con il mondo, con l'America. Se poi la mattina seguente, la professoressa di diritto, marito e figlio nell'esercito, texana fino all'osso e apparentemente repubblicana convinta, dice che in 8 anni l'amico del maverick ha fatto "più danni della grandine" e per questo i compari non meritano altri 4 anni nel D.C., allora ti riconcili anche con tutti gli altri. Tutti gli altri poveri (scusate l'invettiva) stolti che credono che il colore valga più di tutto il resto. E allora che blu (colore dei democratici ndr) sia, e che sia sempre più scuro, tendente al nero, se qualcuno fosse propenso a creare un'analogia. A tutti gli altri poveri stolti che hanno la storia sotto gli occhi, e non se ne vogliono rendere conto. Un grazie invece a tutta l'America repubblicana o democratica che sia, che si accorge che forse a partire dal 4 novembre 2008 qualcosa è cambiato, e aldilà dell'ideologia politica, quel qualcosa si è evoluto, è migliorato. Grazie, per avermi fatto toccare con mano La storia.

Menzione speciale se la merita chi poi, stando a destra dell'oceano riserva (e come non aspettarcelo) amenità varie sul nuovo eletto, "prendendosi la briga e di certo il gusto" di far passare da idioti una sessantina di milioni di persone. Vabbè, nel grande ci sta il piccino, anche lui con il suo pensiero qualcuno pur rappresenterà…Forse. Come la pensa chi scrive più o meno si sa.

Jacopo.

novembre 01, 2008

(Ap)Plauso alla scuola americana

Denigrare la scuola americana è quello che, più o meno tutti, senza averla mai vista, facciamo. Dire che in fondo in fondo ha anche i suoi lati positivi, è quello che, più o meno tutti quelli che l'hanno vista, fanno. A volte tenere insieme 2500 persone di colore, razza, idee, pensieri diversi è impossibile. E' per questo che a scuola ci devono tenere la polizia.

Ma, quando si riesce a vedere che quei colori, quelle idee, quei pensieri combaciano, viene da pensare che non sia l'omino vestito di blu con la pistola alla cintura ad aver fatto un buon lavoro, ma gli altri 2500 che gli stanno intorno. Poi ognuno la pensa a modo suo.

Qua, almeno la scuola, non guarda di che colore sei, se voti Obama o McCain, se sei un metro e mezzo o se sei due e dieci. Qua la scuola, è un posto dove, primo si impara a stare al mondo, secondo si impara il "superfluo": storia, geografia… Perché "là fuori" la gente che nonostante sia stata a scuola è restia a comprendere l'antifona non è poca, e continua imperterrita a distruggere ciò che altri costruiscono. Perché se ci pensiamo bene è vero, gli americani soprattutto dentro i confini cercano dare a se stessi e agli altri "pace e libertà". Sì anche fuori, ma quello è un altro discorso.

Insomma scuola pubblica? Non da buttare, anzi. Longview High School, scuola frequentata ma nemmeno poi tanto, offre 100 e passa corsi, partendo dalla cucina (!), passando dalla più classica matematica, per finire a corsi di dubbio apprendimento quali "floral design" o "bible survey", ma non mettiamo le mani su quest'ultimo, che poi qualcuno la prende su personale! Ma quello che stupisce non è la presenza di tali, bensì la notevole frequentazione. Il corso di cucina poi è richiesto più dell'acqua nel Sahara. Testimoni dicono che ti devi iscrivere un anno prima per poter frequentare quel corso. Invece la classe di fisica consta di ben 17 alunni e il livello non è che sia stellare. Allora provo a immaginare il frequentatore medio della classe di cucina . No, non ce la faccio (e sia detto con tutto il dovuto rispetto eh). Ma, apparte il livello, va considerato che la scuola pubblica, non riceve un autentico accidente se non per le funzioni vitali. E nonostante ciò, ci sono club come il golf, il tennis, il club di spagnolo, quello di francese. Come? Donazioni.

Esempio: la squadra di basket, ogni anno, va in trasferta con pullman, e sosta in albergo per le trasferte più lunghe, con in soli soldi delle donazioni. Sì perché come detto in precedenza, lo stato (in questo caso Texas, che è anche molto generoso!) paga la scuola pubblica. Ma come tutti ben sappiamo, sul lato sinistro dell'oceano preferiscono spesso affidarsi al genio dei singoli popolanti, piuttosto che a strutture di più "obamiana" (concedetemelo, vi prego) accessibilità.

E così, poveri noi, ci ritroviamo in una scuola che puzza, cade a pezzi, non ti insegnano niente e hai poliziotti che ti girano intorno a tutte le ore. Se si vuole la si può anche vedere così. Da un punto di vista "reale" invece, la scuola pubblica è una di quelle cose che insegna. Ti insegna a vedere il mondo, perché là dentro ci trovi i peggiori bifolchi, ma difficilmente ci trovi i Bill Gates o gli Steve Jobs, ti insegna che la scuola, oltre ad insegnarti la moltiplicazione, ti deve dare un modello, per quando sarai "là fuori". Lo sport, almeno per quanto mi riguarda, mi ha dato più lezioni di vita di quanto non avrebbe fatto Aristotele. Ma di questo in fondo ne abbiam già parlato a sufficienza. Quello che conta è che si cerca di fare il massimo con i mezzi che ci vengono dati, di rendere meno brutto quello che è brutto, e l'importante molte volte non è il risultato. Ma lo spirito. Il fatto che una volta di più si sia dimostrato lo sforzo di migliorare, non quello di essere perfetti. La consapevolezza che essere quanto di peggio esista, non sia un handicap ma un punto da cui partire, un vantaggio da sfruttare. Contro chi? Contro se stessi, contro i propri limiti. Sembra di capire come mai a quattro ore da Longview, TX, una quarantina di anni fa qualcuno partiva per andare a vedere i crateri lunari (o almeno così dicono, ma anche qui, quella sarebbe un'altra storia).

Fa veramente tristezza allora, vedere come da qualche parte nel mondo, invece di ottimizzare, si cerchi di manomettere qualcosa che, grazie a Dio, sembra funzionare. E non se fa una questione di politica, bilanci o finanziarie. Se ne fa una questione di orgoglio, lezione che in quella stessa parte di mondo sembrano (sembriamo?) non aver mai appreso. Se ne fa una questione di spirito, che ci dovrebbe spingere ad oltrepassare il vecchio per dirigersi al nuovo, senza vergogna di commettere errori. In Italia invece la lezione che si dà, è che sempre è meglio un passo indietro che uno avanti, meglio una sicurezza (effimera) che un imbarazzo per aver almeno tentato di far qualcosa.

Due culture diverse? Due modi di pensare diversi? Per me semplicemente due principi di newtoniana natura: uguali e contrari. Solo che uno tira avanti, e l'altro tira indietro. Qual è quello sbagliato? Fate voi, ma a me piace la direzione del tempo. Avanti senza mai fermarsi.

Jacopo

P.S.: un rappresentante italiano in terra Texana, dà il benvenuto in questo mondo imperfetto ad un suo omonimo, certo che anche lui, nell'indubbia imperfezione umana, seguirà la direzione perfetta del tempo. Buona Fortuna Jacopo (e confida nello zio).

ottobre 05, 2008

Il "caso" di Monte.

La fortuna è una di quelle cose che si hanno o non si hanno. C'è chi nasce con la fortuna e chi nasce con la sfiga. Un po' come la storia di Paperoga e Paperino, uno ce l'ha, l'altro non ce l'ha, e non ci puoi fare nulla. Puoi provare e riprovare a far girare quella fortuna, che gira e gira, ma non ti capita mai. E' una di quelle cose: "Per tutto il resto c'è MasterCard". Eh infatti, per tutto il resto. E la differenza tra chi la fortuna ce l'ha e chi non ce l'ha è molto semplice, ed anche visibile agli occhi di tutti. Infatti uno fa una valanga di cene con gli amici del Liceo o rispolvera le antiche foto di famiglia con occhi lucidi, mentre l'altro usa MasterCard e si compra schermi 50'' aquos di Sharp uno dopo l'altro. Non che per ciò l'intestatario della MasterCard sia migliore dell'altro, solo per dire che forse ha un po' più di "fortuna". 

C'è chi, invece, questa situazione innata di fortuna-barra-sfortuna non l'accetta, e si inventa detti del tipo: "La fortuna aiuta gli audaci" e così via. 

La fortuna aiuta i fortunati, punto. Anzi, la fortuna muove il caso, che aiuta i fortunati. Per transitività si torna al primo assioma.

E credo proprio che di questo avviso sia Monte (ai  praticanti dell'inglese maccheronico suona come Money, tenetelo presente perché non è un dettaglio inutile) Pittman. Infatti una sera al David Letterman's Late Show appare Madonna. Sì, Madonna, la pop-star. Una diva in carne ed ossa che canta, balla, suona...no, fermi, suonare non suona. Accanto a Madonna infatti c'è un tipo con la chitarra, che col plettro tutto sommato se la cava! E visto che ora vivi a Longview, TX, ti viene subito fatto notare che il tipo, a nome Monte Pittman è nativo della città "della lunga vista". Eh vabbè dico io, anche Cipollini è di Lucca! 

Maledizione. A volte mi chiedo veramente perché continui a lanciare queste sfide agli americani; ne sanno sempre una più di te, e male che vada il loro migliore amico è anche un veterano di una di quelle leghe professionistiche a tre lettere, tipo NBA, NFL, NHL, MLB. Cosette insomma.

Monte, dopo l'infanzia passata a Longview, si diploma e cerca di guadagnarsi da vivere tra un lavoretto e l'altro. Ma la fortuna è assai meschina con lui, e nonostante tutta la buona volontà e una passione sfrenata per la musica, non gli viene concesso molto. Così, chiusa baracca e burattini, si muove in una delle tante direzioni che la città “della lunga vista” ti permette di osservare. E così il tipetto, appassionato di musica, si è  intanto procurato un lavoro in un music-store a 3 piani sulla Sunset Avenue, Los Angeles. Un po' come dire in Via Condotti a Roma. E allora lasciata l'abitazione a Longview, si sale in macchina e si percorrono i 2000 km che separano la cittadina texana dalla meta, che per Monte rappresenterà una Terra Promessa. Terra Promessa che tuttavia non si presenta subito come d'incanto. Infatti il povero Mr. Pittman ha come unica abitazione, oltre al music-store in cui lavora, il sedile posteriore della sua auto. 

Ma l'assioma suddetto non si discute, e Monte essendo fortunato, viene aiutato. 

In uno dei suoi tanti giorni lavorativi al music-store, uno sconosciuto entra, guardandosi intorno con aria interrogativa.

"Ha bisogno di qualcosa Signore?", "Cerco qualcuno che dia lezioni di chitarra a mia moglie, a chi posso rivolgermi?", "Guardi ha trovato la persona giusta.". Veloce scambio di chiacchiere alla fine delle quali la vita di Monte, a sua insaputa, non sarà più la stessa. Al commesso viene infatti dato un pezzo di carta con su scritto un indirizzo. E così Monte, da bravo maestro, si presenta al suddetto indirizzo il giorno stabilito. Davanti ai suoi occhi si profila una tenuta che, nonostante il nostro tipo non sia pratico di questi posti da milionari, capisce subito che c’è qualcosa che non va. Anzi che va, eccome se va. Quando infatti il maestro chiede di vedere l’allievo si profila davanti una faccia abbastanza conosciuta. Ah si deve essere quella lì…sì sì, quella di Like a Virgin, American Pie. La signora Ciccone, Madonna per gli amici. Lo sconosciuto del music-store? Guy Ritchie! Per uno nativo di Longview probabilmente niente di più di un giocatore dei Cowboys. Anzi, molto meno.

Da tre anni a questa parte, la Signora Ciccone ha deciso che è più comodo portarsi in giro il chitarrista piuttosto che suonare la chitarra ogni volta. E così il “caso” ha voluto che Monte si girasse mezzo mondo e facesse veramente tanta “fortuna”. Per chi poi risiede nello stivale italico rimandiamo il suo nome a quel "money" sopra citato, sinonimo sotto certi aspetti, di fortuna.

La fortuna aiuta i fortunati. Sembrerebbe assioma non confutabile.

Jacopo.

settembre 17, 2008

Quella volta che Ike...


Ogni tanto alcuni passano e vanno, ogni tanto alcuni passano, si fermano, e vanno. A molti danno un nome da donna, e ci deve pur essere un motivo. Ike era uomo: 6'8'', 150 kili di muscoli, schiaccia a due mani da all'indietro. Da fermo.
No, nient'affatto. Ike era maschio, e se era già è un'eccezione quello, un eccezione è anche quello che ha fatto in Texas. A quanto dicono, un uragano così, non l'avevan mai visto. Qua, a 400 km dalla costa, c'è gente con i pini in giardino. E allora? Eh, son sdraiati. Immagino e lascio immaginare cos'ha fatto nei precedenti 4oo km. Fecendo un giro del vicinato ci si accorge che se per due giorni non hai avuto la luce e ti sei annoiato a morte, c'è gente che invece si diverte a tagliare con la motosega l'albero sradicato che si ritrova in giardino. E anche lui vorrebbe tanto annoiarsi a morte come te, che passi e lo guardi con faccia idiota mentre pensi: "Urcaaa". Ti rendi conto di essere il turista di turno che sembra non aver mai visto una persona che taglia un ammasso di rami con una motosega, ma ti rendi anche conto che forse non è il giorno giusto per guardarlo con quella faccia. Soprattuto per quell'attrezzo che tiene in mano. Quindi ti giri e te ne vai. Meglio così.
E anche Ike, a modo suo, fa così: si volta e se ne va.
Domenica sera (giorno dopo la tempesta): partita di NFL Pittsburg @ Cleveland. Cosa c'entra? C'entra. Tutto sembra normale: la gente sugli spalti è impazzita, i giocatori se le danno di santa ragione...la maglietta degli arbitri...Ecco. Quella, che non è attillata come le note divise da football americano, si gonfia tipo spinnaker di Luna Rossa. Il povero ottantenne Dick Bavetta del football oltre a essere bagnato fradicio, fatica a stare lì, e si vede. Tanto che ESPN, impietositasi, manda una sovraimpressione con una cifra: 25. Miglia orarie, la conversione fatela voi, Ike è arrivato fino a Cleveland, Ohio, che non è proprio lì. Forse chi dice che una cosa così in Texas non l'aveva mai vista non ha tutti i torti. 

Ah, e oltre mandare all'aria tutto ciò che incontra, Ike manda all'aria anche un weekend a San Antonio,  una delle sue prime tappe nella gita verso Cleveland. 3 giorni nella città dell'Alamo buttati letteralente al vento soprattutto quando scopri da Andy, conoscente di famiglia tedesco, exchange student 10 anni fa in Texas, che là una goccia di pioggia l'avrebbero gradita volentieri. E invece? Temperatura mai sotto i 30 gradi. 
Dicono che in futuro potranno deviare gli uragani, perchè non si ripeta mai più un episodio come quello di Katrina. Intanto gli uragani si deviano da soli, e i 50 cm di pioggia previsti a San Antonio se li prende di diritto l'East Texas, Longview inclusa. Episodio da annettere rigorosamente alle beffe.

Jacopo.

settembre 15, 2008

Blackout

Siamo (sono) momentaneamente down causa un blackout. Nessuno qua sembra sapere se e come la luce tornerà. "It would take days, maybe weeks to restore the power": parole della giornalista del TG di Longview. 
Aspettiamo fiduciosi.

Jacopo.

P.S.: Intanto oggi in qualche parte del mondo si tornava a scuola. Qua invece oggi è giorno di "vacanza". Ike ha anche i suoi lati positivi.

settembre 04, 2008

Mister Muscolo e l'etica del lavoro

Si sa che le persone (o almeno quasi tutte) per vivere vanno a lavorare. C'è chi fa il dottore, c'è chi fa l'avvocato, chi fa l'operaio e chi il minatore. Tutti, più o meno, guadagnano, tutti, più o meno, lavorano. Ecco, proprio riguardo a ciò occorre fare una distinzione: l'avvocato e il dottore "fanno una professione", gli altri due, disgraziati, "lavorano". E qua, dove (almeno così dicono) vige una ligia meritocrazia, i più meritevoli hanno avuto la pensata geniale di interpretare nel migliore dei modi tale distinzione. 

Diciamo a questo punto che da annettere al dottore e all'avvocato ci sono anche gli insegnanti, che tuttavia, nonostante "professino" la loro conoscenza, cercano di fare il loro onesto "lavoro". Insomma: scuola pubblica americana? Ok, tutto quello che vuoi, ma ho visto di peggio. Fa eccezione lui: 5° periodo. Che dopo varie scampagnate in lungo e in largo per il campo, ci porta in palestra. Lì risiede una persona, o personal trainer, con una maglietta grigia con scritto Lobo(l'animale simbolo della scuola)-Football. Tanto per dare un'idea di chi sia l'individuo che colma tale t-shirt, dico solo che i suoi bicipiti, a occhio e croce, sono più grandi delle sue cosce. Per di più tiene continuativamente le braccia conserte, che di certo non aiuta ad affermare il contrario. Diciamo che due o tre "lavoretti" così a perditempo lui se li è fatti. E di certo i suoi successori non possono essere da meno. Così si arriva in palestra e formate le coppie, si va verso un'ora e un quarto di "duro lavoro". I due coach, appena arrivati, assistono sprezzanti a quel massacro di fatica. E anche questo "lavoro", come ogni altro, lo fai perchè ti serve, e la ragione del bisogno non conta. Altrimenti saresti già a mangiare il sandwich che con tutta la cura viene preparato ogni mattina, prima di andare a scuola. E invece arrivi a pranzo, in ritardo perchè Mister Muscolo non è mai contento, che quel tramezzino fai fatica ad alzarlo. Ma , d'altra parte, l'etica del "lavoro" si impara sin da piccoli e allora qua, già dall'high school, c'è qualcuno che ti spiega che forse è meglio andare al College e imparare a "fare una professione" piuttosto che continuare a "lavorare". Sì perchè qua se nessuno ve l'avesse ancora detto, non si "va" in palestra, si "lavora" in palestra, e interpretare la differenza non è poi così difficile. 

P.S.: A fine sessione, però, manca una cosa. Infatti ci dirigiamo misteriosamente verso lo spogliatoio. Si vede che Mister Muscolo non ha bisogno di ringraziare il Signore...

Jacopo.

agosto 31, 2008

Tu chiamale se vuoi, Coincidenze.


Avviso ai naviganti: questo "articolo" è puramente a carattere personale e interesserà (forse) una, due persone.

24 agosto 2007 (o giù di lì),

tornavo da un viaggio in Francia, da una settimana sull'oceano, da un paesaggio fatto di dune, onde e surfisti. Quello stesso giorno ho attraversato mezza Francia, dalle viti del Cognac, agli acquedotti della Provenza, per finire agli yacht di Monaco. E poi? A casa. Fine.

Anzi no. Ore 7, allenamento. Si torna alla vita di tutti i giorni. Ecco ora sì: fine. 

E invece no. Entro nello spogliatoio (sicuro di aver imbucato quello giusto), e come ogni anno chi ci ritrovo nel solito angolo? Eu. Tra saluti e cose varie mi dirigo verso il mio angolo (che alla fine è quello adiacente a quello del compagno). C'è un'altra borsa, con una strana scritta sopra. Mai vista tale borsa in territorio pesciatino. Perciò la sposto e mi riapproprio del mio amato angolo. Ma è l'ora di cominciare: si va in campo, e un omuncolo dirige la nostra preparazione atletica, un omuncolo (con una strana astronave gialla della Ford) che con nostra grande gioia non ci lascerà fino alla fine dell'anno. Ma so che ci sono novità, per cui mi avvicino al compagno di angolo e chiedo, visto che le pubbliche relazioni in società le tiene lui. Dice:"Ce n'è due o tre n(u)ovi, uno lo conosci...", "Ok, e gli altri?", "Prossima domanda?". Aveva ragione. Da quel momento, il mio, suo, il nostro mondo, non sarebbe più stato lo stesso. Saremmo passati attraverso tutto, e dico veramente tutto. Allenamenti (rigorosamente Matteoliani), partite (altrettanto Matteoliane), giornate, serate (soprattutto), bevute (non ne parliamo), i******ture, c*****e (più delle bevute)...e poi?

Vado via. E dove? In America. Perchè la vita se è facile non ci piace. Ma più che altro se son qui a scrivere è perchè il caso ha voluto che quello sport che c'aveva riuniti, quel sabato (l'aggettivo mettetecelo voi) non aveva partite in programma. Sennò? Altra storia.

Comunque sia, grazie di tutto Mecchin. E grazie anche a te Eu. La foto è per voi, perchè prima o poi dovrete vederla quella città!

Ah, e grazie anche a tutti gli altri.

P.S.: quella borsa, la cui scritta non nominerò invano, si appropriò del mio angolo, ma solo su mia gentile concessione verso un (gradito) ospite.

Jacopo.

agosto 29, 2008

Giorni di ordinaria...preghiera!

La vita è come gli affari. Possono andare meglio, ma possono andare anche molto, molto peggio. Come dice sempre il titolare di un ristorante che conosco bene alla domanda:"How's your business?" "Can't complain!". Non ci si può lamentare. Non esistono leggi di mercato certe, anzi se la mettiamo su quel piano, di certo non esiste niente. Il mercato però offre l'esempio significativo: quello che oggi è oro, domani potrebbe essere ottone. A costruire una fortuna ci mette una vita, a voltarti le spalle ci mette un attimo. Quello che è curioso però, è come questo si rifletta, come su uno specchio d'acqua, sulla vita. Oggi hai quello che ti serve e anche qualcosa di più. Domani chissà. E allora è bene sì costruirsi la propria fortuna, essendo certi che prima o poi andrà persa, ed essere perciò contenti di dover essere impegnati a ricostrurla. Così alcuni si pongono di fronte alla vita. Così mi ci pongo io. E quando nella scuola americana la domanda del giorno della classe d'inglese è:"Credi in Dio?", hai tutto il diritto di rispondere "No.". Poi però arriva il 5° periodo (o quinta ora, chiamatela come volete). E lì è un'altra storia, ma tutta un'altra proprio. Si scende nel colosseo, come dicono qua; si va al palazzetto, come dicono là. Entri in spogliatoio:"Scusate, devo aver sbagliato porta, lo spogliatoio della pallacanestro?". Invece no, sei nel posto giusto, ti rispondono una quindicina di neri, con annessi 2 bianchi che però, misterosiamente, tacciono. I coach, di colore pure loro, dopo pochi convenevoli di presentazione, cominciano il loro allenamento. E ritrovarsi lì in mezzo, dove TE sei diverso, e loro son quelli che san giocare (o presunti tali), non è bello, o perlomeno, non è entusiasmante. Ma quando si gioca non esistono colori, minoranze o maggioranze, se qualcuno sgarra, nero, bianco, giallo, rosso, si corre. E si corre sul serio. Finisce allora che l'allenamento del giovedì diventa un moto perpetuo che percorre in orizzontale i 14 metri del lato corto del campo. Ah, ogni tanto ci si ferma e il coach con aria i*******a fa la predica, che tuttavia non mi è concessa di capire, se non per le espressioni puramente volgari ormai ben note. Esse però fanno ben dedurre il succo del discorso. In fondo all'allenamento? Preghiera. Sì perchè? Non vuoi ringraziare il Padre Nostro, che anche oggi siamo usciti vivi dal Colosseo?
La risposta alla domanda nell'ora d'inglese? Mi scuso pubblicamente, qualcuno che da lassù ci guarda e fa suonare la campanella ci deve pur essere. 
Jacopo.

agosto 24, 2008

I'm in Americaaaa!

14:30 circa. Pietro's bar, ristorante italiano in terra Texana. Non so quanti altri ce ne siano nel mondo che fanno calzoni di tale qualità. Non a Longview eh, nel mondo. Entra una ragazza di colore nel bar, ordina qualcosa, va in bagno, mangia. Io sono lì, due tavoli più in là, che discuto con Larry, tipico uomo americano, un po' stile marine, della stagione che faranno i Cowboys (squadra professionistica di football di Dallas). E' un po' come discutere della prossima stagione del Milan, con Ronaldinho, Kakà, Pato. "Eh no eh, tanto prenderà tanti quei goal con quei pensionati che si ritrova in difesa...eh". Il livello della discussione più o meno è quello. Non che Larry sia di tale livello, anzi è la persona più rispettabile che abbia incontrato finora: Harely Davidson e lì andare! Si fa una 30 miglia tre volte la settimana per andare a mangiare i suddetti calzoni. Il discorso continua, verte su altri argomenti ma niente di più importante dei Cowboys (per carità, qua sono una fede, ma non che ciò m'importi). Intanto fuori dal bar succede il finimondo. Si perchè il cielo in 5 minuti improvvisamente si oscura, ma non è che comincia a piovere. No, comincia a diluviare, perchè come ho ormai appreso "in Texas tutto è sproporzionato, quindi se piove vien giù l'Apocalisse (cit.)".

Ma non è tutto. No? No, perchè dov'è che siamo? Ah già.

Tento invano di non guardare fuori perchè lo scenario è inquietante; qualcuno dice che ogni tanto passano anche dei piccoli uragani, ma niente di che, questa non è zona per quelli grandi. Vedo un auto della polizia, un poliziotto che discute con qualcuno. Sposto la testa per vedere oltre la finestra. L'interlocutore del poliziotto, o per meglio dire le interlocutrici, sono due persone di colore, mamma e figlia. Hanno un van blu. "Apra il van per favore." Lo aprono. Ops, stenderia di vestiti (credo) rubati (di sicuro). Niente storie, manette e dritte nella volante. "Non ho fatto niente" continuano a ripetere. "Ok, adesso, per favore, entri GENTILMENTE nell'auto. Grazie!" Ci entrano, forse volentieri, visto che intanto continua a venire giù il diluvio. Inanto è arrivato un altro poliziotto, e ironia della sorte, nel bar c'è lo Sceriffo della contea. Che tuttavia era a mangiare con la moglie, quindi non ne vuole nemmeno sentir parlare. Esce e con un cenno ai colleghi se ne va. Inanto il secondo poliziotto entra nel bar con in mano il tipico taccuino per raccogliere le testimonianze, che però rimarrà bianco. "Sto cercando una ragazza di colore, giovane, deve essere qui dentro." Bingo. Presa con le mani nel sacco (ma dico no, almeno vattene in un bar un po' più lontano!). Mi volto. Vi ricordate la ragazza di colore che era entrata nel bar durante la discussione sui Cowboys? Ecco, dileguata, dissolta nell'aria. Tutti perciò dicono:"Beh era qui fino a un secondo fa". Io non lo faccio perchè non so esattamente come si dice, ma questa è un'altra storia. "Vabbè, state qui che ritorno, le indagini non sono finite." Ma come, oltretutto che ve la siete fatta scappare da sotto il naso, devo anche aspettare? No. Infatti vado a casa, contento e un po' disturbato dal fatto di aver assistito al primo arresto in diretta della mia vita. In America questo altro. La prossima volta voglio vedere Chuck Norris!

Ah, un attimo. Menzione speciale se la merita Josè Flusciano. Eh? Origini portoricane, vissuto a New York fino a 14 anni, quando muore il nonno. Così suo padre dice:"Sai che c'è? Vado a vivere a Jacksonville, Texas." Fatte le valige si monta sul bus e si va a Jacksonville senza fare una piega. No, anche perchè non è che ora Josè se la passi proprio male: 9 figli, 9, una host student dalla Germania, e una montagna, anzi un Everest di soldi, arrivati direttamente dalla cosetta di assicurazioni che era stata messa su dopo il trasferimento. Adesso ha un palazzo che emula quelli di New York. D'altra parte la sua città, come dice lui, è quella. In America Josè e (molto) altro.

Jacopo.

agosto 20, 2008

Una settimana dopo


20 agosto, Longview.

E' passata una settimana dalla partenza. Una settimana e sembra sia passato un mese, forse un anno. Le emozioni di 7 giorni fa probabilmente non si ripeteranno mai più, anzi sicuramente non si ripeteranno. No, quelle son cose che si provano una volta nella vita, la seconda potrebbe essere fatale. Poi però quando passano sembrano lontane un secolo. Sembra sia passato un secolo da quando ho salutato gli amici a Roma, sembra sia passato un secolo da quando mamma e babbo stavano in Italia. Non che non ci stiano più, ma ora (mom and dad) stanno anche qua, a Longview, e la cosa mi risulta alquanto bizzarra. In effetti in una settimana possono cambiare più cose di quanto uno creda: paese, famiglia, amici, conoscenti, abitudini e qui mi fermo soltanto perchè non mi vengono in mente le altre centinaia possibili. In una settimana puoi sentirti lontano da tutti e da tutto ciò che avevi e non sentirne la mancanza, perchè sai che se avrai bisogno loro ci saranno sempre. Ah poi in una settimana (o anche in un giorno) puoi andare a Shreveport, Lousiana. Shreveport, e soprattutto Lousiana, meritano un capitolo a parte. Interstate 20, che dal South Carolina termina nel Texas, mezza America di strada insomma. Basta il tratto che da Dallas, TX va a Shreveport, LA per capire una cosa. 2 ore e mezzo di niente fin quando arrivi al confine con la Lousiana. Ecco, da li un altro mondo. Il paesaggio (stereotipato quanto volete) è quello delle immagini pre-uragano Katrina (quelle post fanno caso a parte). Case antiche, per non dire vecchie e decadenti, chilometri e chilometri di niente. Un niente che però non ha nulla a che vedere con il niente del Texas. In Texas il benessere c'è e si vede. Varchi il confine, e la desolazione c'è e si vede anche bene. Per quel poco che ho visto, in Lousiana, o sei ricco o sei povero, senza troppe mezze misure (salvo le eccezioni). A Shreveport ci sono 3 casino. A giocare arrivano da tutta l'America, ma gli indigeni che vanno al casino son pochi, ma davvero pochi. Fermi, non siamo in Africa,non si muore di fame, ma non tutta l'America è un sogno, anzi son certo che qualcuno vorrebbe andarsene altrove. 

Io invece resto qui, perchè il Texas è bello e mi piace, tutte le persone che incontri per la strada sono (super)accomodanti. E come chi mi conosce bene sa, ormai la decisione l'ho presa, indietro non si torna, e in questa settimana mi sembra anche di aver preso una buona decisione. Speriamo in bene.

Jacopo.

agosto 15, 2008

Benvenuti in Texas!


Dov'è che siamo? Ah sì, Longview, Texas! Finalmente a casa, nella nuova casa ovviamente. Qua in Texas quasi tutte le case hanno un unico piano, sono basse, anzi bassissime. In compenso le strade, gli aeroporti, gli hotel, qualsiasi cosa possiate immaginare qua è enorme. Non esistono mezze misure, a dir la verità nemmeno le piccole. Da Starbucks il caffè te lo servono in un bicchiere da più di mezzo litro, per un italiano un'eresia...ci farò l'abitudine, eh si, è proprio il caso che ce la faccia. 

In mezzo a tutto questo un viaggio in aereo durato (tra scali e robe varie) 16 ore, il giorno più lungo della mia vita (30 ore, causa fusi), e un milione di addii, tra parenti e amici, vecchi e nuovi. Quello che è strano è che non ti rendi conto di essere dove sei, di fare quello che stai facendo: tutto troppo in fretta, tutto troppo strano. 

Come svegliarsi e essere in un letto a due piazze, alzarsi e vedere le casette (rigorosamente ad un piano) circondate ognuna dal proprio giardinetto, così verde che non penseresti di essere in Texas. 

E invece? Benvenuto in Texas! Adesso però stiamo a vedere cosa succederà. Non si può che sperare in bene, d'altra parte da qua lanciano le navicelle che vanno fin su Marte...come non vederci qualcosa di buono??

Ah, vi ricordate la massima del nonno, dimenticatela, o chiedete il significato in altra sede, è meglio.

Jacopo

agosto 12, 2008

Sciogli le cime: si salpaaaa!!

Montecarlo, 11 agosto,

Eccoci qua. Il 12 agosto sta per arrivare (manca una mezz'oretta ancora). Ciò significa che tra qualche ora parto. Destinazione? Longview, TX...

Com'è che si chiama scusa??? In questo caso in nome della destinazione non è molto importante anzi, non lo è affatto. Ciò che importa è che in quei 25 kg tra valigia e bagaglio a mano (Dio fa che siano 25 kg e non un etto di più!), non ci sono solo vestiti, scarpe e roba varia. No, lì dentro c'è molto di più, c'è qualcosa che se si potesse pesare non me lo imbarcherebbero nemmeno su un aereo cargo. Per fortuna lì dentro c'è la voglia di viaggiare, di andare a vedere Cosa c'è al di là della siepe di casa tua, Chi c'è al di là di quella siepe, la paura (tanta), all'aeroporto non si pesano. Le pesa il tuo stomaco invece, e a volte ti dice che quel peso non lo sosterrebbe nemmeno il già menzionato cargo. Allora ti lasci andare. E capisci che avere quel peso lì non è proprio il caso. Buttalo, quel posto potrebbe servirti un giorno.

Apparte tutto, la sensazione è strana, bizzarra forse. Senz'altro è quella che non ti aspetti, ma non c'è più tempo, adesso si parte, sensazioni o no. E si parte per davvero, senza remore, senza rimpianti, salutando tutti, ma proprio tutti.

Sciogli le cime, adesso si salpa, verso l'infinito e oltre. Un grossissimo arrivederci a tutti.

Ah e per chi lo volesse, anche un asd.

P.S.: Vi lascio con la chicca del nonno: "Stai attento, perchè fidassi è bene, ATU è meglio (cit.)". La parafrasi alla prossima puntata.            P.P.S.: Grazie Marco, sei il mio ispiratore, una musa insomma.